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EVOLUZIONE DELLA DIRIGENZA LOCALE CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL COMANDANTE DELLA POLIZIA LOCALE



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SCUOLA REGIONALE DI POLIZIA LOCALE
DELLA REGIONE CAMPANIA


Tesi di specializzazione in
SICUREZZA URBANA E TERRITORIALE

EVOLUZIONE DELLA DIRIGENZA LOCALE CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL COMANDANTE DELLA POLIZIA LOCALE





Il Relatore


Candidato
Dott. Luigi Verde







Anno 2005


INDICE


CAPITOLO UNICO
L’evoluzione della dirigenza locale con particolare riferimento al Comandante della polizia locale
1.1. L’evoluzione della dirigenza locale………………………………….pag. 1
1.2. Il dirigente della polizia locale…………………………..………….pag. 11


BIBLIOGRAFIA……………………………………………………….....pag. 21
1. L’evoluzione della dirigenza locale.

La funzione dirigenziale fa la sua comparsa, nel nostro ordinamento, con il d.p.r. 748/72, emanato in attuazione della legge delega 28 ottobre 1970, n.775, e recante una normativa applicabile unicamente nei confronti dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato, ivi comprese quelle ad ordinamento autonomo.
Solo a più di dieci anni di distanza dall’emanazione del citato decreto viene per la prima volta disciplinata anche la dirigenza locale, a mezzo, questa volta, di una fonte secondaria di natura regolamentare: il d.p.r. 25 giugno 1983, n. 347, recettivo dell’accordo sindacale relativo al comparto del personale degli enti locali per il triennio 1983-85, stipulato ai sensi della legge quadro sul pubblico impiego.
La dirigenza locale, dunque, a differenza della dirigenza statale e parastatale, trova la sua prima configurazione in un ambito propriamente attinente all’organizzazione del lavoro, e non all’organizzazione degli uffici. Ciò si precisa in quanto, per poter disciplinare la materia, occorre che siano prima emanate le norme relative all’organizzazione amministrativa locale, quindi potranno intervenire le norme sullo stato giuridico dei titolari degli organi.
Il d.p.r. 347/83, con l’allegato A, prevede l’introduzione, negli ordinamenti delle autonomie locali, di due qualifiche dirigenziali: la prima e la seconda qualifica dirigenziale -e cioè rispettivamente la nona e la decima qualifica funzionale-, tracciando contestualmente un profilo del dirigente all’interno della struttura organizzativa dell’ente locale.
Esso stabilisce, tra l’altro, che la funzione dirigenziale nelle amministrazioni locali è rivolta ad attuare i programmi di sviluppo economico e sociale, da esplicarsi in conformità degli indirizzi politico-amministrativi formulati dai competenti organi istituzionali, in costante raccordo tra questi ultimi e gli apparati amministrativi. Sempre secondo quanto si legge nel d.p.r. 347/83, allegato A, l’esercizio della funzione dirigenziale è caratterizzato, oltre che da preparazione culturale e professionale, da piena autonomia tecnica di decisione e di direzione, in particolare nell’organizzazione ed utilizzazione delle risorse umane e strumentali assegnate. I dirigenti sono poi competenti all’emanazione di istruzioni e disposizioni per l’applicazione delle leggi e regolamenti, nonché –si badi bene- all’emanazione di atti a rilevanza esterna. Infine, i dirigenti partecipano ad organi collegiali, commissioni e comitati operanti all’interno dell’amministrazione.
Va osservato, tuttavia, che se con il d.p.r. 347/83 si tende a delineare una tipica area operativa riservata ai dirigenti, “manca, anche al solo livello di tentativo, la benché minima prospettazione del problema concernente il raccordo e la compatibilità fra le nuove previsioni contrattuali e le attribuzioni, di diritto e di fatto, esercitate dagli organi elettivi degli enti locali”, cosicché l’autonomia gestionale dei dirigenti viene sistematicamente compressa dal ruolo prevalente dei politici.
Al d.p.r. 347/83 fanno seguito il d.p.r. n. 268/87, recante le norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo sindacale relativo al comparto del personale degli enti locali per il triennio 1985-87 ed il d.p.r. n. 333/90, recettivo dell’accordo sindacale per il triennio 1988-90. Le norme relative alla dirigenza in essi contenute –e cioè gli artt. 40-46 del d.p.r. 268/87 e gli artt. 37-40 del d.p.r. 333/90- provvedono, nel confermare le linee della precedente disciplina, a meglio precisarne alcuni aspetti.
Così, l’art. 40 d.p.r. 268/87, stabilisce che i dirigenti espletano le proprie funzioni in posizione di autonomia e di responsabilità ed al fine di garantire la piena concordanza dell’azione dell’apparato con gli obiettivi e le scelte degli organi istituzionali; con il successivo art. 41 si stabilisce che il principio della mobilità interna del personale è applicabile anche ai dirigenti.
A sua volta, il d.p.r. 333/90, nel dettare, all’art. 37, la disciplina relativa alla prestazione quantitativa di lavoro dei dirigenti, sancisce che l’orario di servizio di tale categoria di personale non può essere inferiore a 36 ore settimanali e che i dirigenti sono a disposizione dell’amministrazione oltre l’orario d’obbligo, per le esigenze connesse alle funzioni assegnate loro, senza diritto a compenso. Con l’art. 38, viene introdotta l’indennità di funzione connessa con l’effettivo esercizio delle funzioni, mentre l’art. 40 attribuisce ai dirigenti una specifica competenza in ordine alla gestione del fondo per l’efficienza dei servizi.
In questa sede, preme osservare che, nonostante le accurate descrizioni della funzione dirigenziale contenute nel d.p.r. 268/87 e nel d.p.r. 333/90, permangono i limiti già riscontrati nella normativa contenuta nel d.p.r. 347/83. Infatti, ancora difettano i necessari chiarimenti in ordine al rapporto intercorrente tra dirigenti e gli organi elettivi, i quali, perciò, “oltre a formulare gli indirizzi politico-amministrativi nell’ambito degli organi istituzionali di cui fanno parte, tendono a sovrapporsi alla struttura dirigenziale nella stessa fase dell’individuazione e del governo degli strumenti per attuare le scelte programmatiche dell’Ente”.
Questa situazione genera una serie di frizioni e di conflittualità e rende infondata la “pretesa di chiamare i dirigenti a rispondere del fallimento di obiettivi che i medesimi non siano stati posti nelle condizioni di perseguire e di raggiungere con un congruo grado di autonomia operativa e decisionale.
D’altra parte, a determinare un quadro così poco edificante, concorre anche, da un lato, la tendenza delle organizzazioni sindacali a ricercare come interlocutore privilegiato il politico, mortificando la struttura tecnico-burocratica; e, dall’altro, la circostanza che i dirigenti, anziché rivendicare il riconoscimento di un’effettiva autonomia decisionale, da cui inevitabilmente scaturiscono non solo nuovi poteri ma anche maggiori responsabilità, limitano le proprie richieste al solo trattamento economico.
Sono queste le cause principali che bloccano il decollo della dirigenza nelle amministrazioni locali e fanno sì che essa ripieghi “sul contenuto delle competenze tecniche giuridiche e gestionali, dove sono più precisamente attribuite funzioni e che si incardina meglio in una cultura amministrativa volta a privilegiare l’attenzione alle procedure piuttosto che agli obiettivi da raggiungere, che possono apparire ininfluenti una volta rispettate le disposizioni formali.
I limiti della normativa dettata dagli accordi collettivi di comparto per i dirigenti degli enti locali e, ancor prima, i limiti della normativa relativa alla dirigenza statale e parastatale contenuta nel d.p.r. 748/72, favoriscono l’insorgere, negli ultimi anni, di una nuova attenzione per il problema del riordinamento di tutta la dirigenza pubblica. Si diffonde, così, il convincimento che la sua riorganizzazione rappresenti “una pregiudiziale indispensabile per l’ammodernamento dell’apparato pubblico, e la sua trasformazione in senso efficientistico ed economico”.
In un certo senso anticipando, dunque, quanto auspicato da qualche tempo, la legge 5 giugno 1990, n. 142, sull’ordinamento delle autonomie locali, emanata dopo un iter complesso e travagliato, evidenzia una nuova figura di dirigente dell’ente locale, che costituisce un banco di prova per la riforma di tutta la dirigenza pubblica.
La ragione dell’attenzione mostrata dal legislatore del 1990 nei confronti della dirigenza va probabilmente rinvenuta in ciò che quest’ultima, nel disegno complessivo della legge, è “strumento fondamentale per mirare alla trasformazione del modo di amministrare per atti -dove il ruolo dei dirigenti è quello di verificare la legalità formale degli atti- in amministrazione di risultato, ponendo al centro del suo funzionamento il raggiungimento degli obiettivi fissati dagli organi elettivi, coniugato con il rispetto dei principi di legalità, imparzialità e del giusto procedimento.
In particolare, l’art. 51 della legge 142/90, relativo all’organizzazione degli uffici e del personale, contiene un’esatta individuazione dei compiti e delle responsabilità dei dirigenti comunali e provinciali.
Innanzitutto, l’art. 51, comma 2, prima parte, enuncia il fondamentale principio della separazione tra i “poteri di indirizzo e di controllo”, di spettanza politica, e la “gestione amministrativa”, di spettanza dirigenziale; con il dettato della seconda parte del comma 2 e con il comma 3 vengono attribuiti ai dirigenti ampi poteri di direzione degli uffici e dei servizi, di adozione di atti con rilevanza esterna, di presidenza delle commissioni di gara e di concorso e di stipulazione dei contratti; il comma 4 prevede la diretta responsabilità dei dirigenti per la correttezza amministrativa, tecnica e contabile e per il conseguimento degli obiettivi segnati dall’indirizzo politico-amministrativo degli amministratori; il comma 5 contempla la facoltà per l’amministrazione dell’ente di conferire, in virtù di apposita previsione statutaria, incarichi dirigenziali, mediante contratto di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, ad estranei per tempo determinato; infine, il comma 6 introduce una virtuale rotazione dei dirigenti nei posti apicali sulla base di provvedimenti motivati che possono essere adottati in esito alla valutazione dei risultati ottenuti dal dirigente nel periodo conclusosi.
Un’importante notazione: la disciplina della dirigenza delineata dalla legge di riforma doveva essere integrata da quella contenuta negli atti normativi locali, cioè negli statuti e nei regolamenti -artt. 4 e 5 della legge n. 142/90-, sicchè l’effettiva ampiezza dei poteri dirigenziali variava da ente ad ente.
Bisogna riconoscere, al riguardo, che l’autonomia statutaria attribuita ai comuni ed alle province si è rilevata un vero fallimento. Gli organi di governo degli enti locali hanno dimostrato di essere estremamente restii a dare attuazione alle previsioni dell’art. 51 della legge n. 142 del 1990 e degli artt. 3 e 13 del decreto legislativo n. 29 del 1993. In linea di massima, anche nei grandi comuni, hanno preferito trattenere per sé stessi le competenze relative alla gestione, ed in particolare quelle relative alla emanazione degli atti con rilevanza esterna, lasciando ben poche competenze alla burocrazia.
La cosiddette “leggi Bassanini” hanno cercato di porre rimedio alla riottosità delle amministrazioni locali riguardo all’attribuzione ai dirigenti dei compiti gestionali, da effettuare a mezzo dello Statuto.
Hanno risposto bene allo scopo le disposizioni dettate dalla legge n. 127/97. La loro formulazione originaria invero lasciava a desiderare. La successiva legge n. 191/98 ne ha eliminato i principali difetti.
Ferma restando la disposizione di cui all’art. 51, comma 3, prima parte, L. 142/90, secondo la quale ai dirigenti spettano tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell’ente, la legge n. 127, all’art. 6, comma 2, che ha riformulato il secondo periodo del citato comma 3, ha espressamente attribuito ai dirigenti “tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dall’organo politico”.
Con carattere esemplificativo e non tassativo vengono, inoltre, elencati non pochi di questi compiti. A quelli già previsti dall’originario art. 51, comma 3, si aggiungono gli atti di gestione finanziaria, compresa l’assunzione degli impegni di spesa, gli atti di amministrazione e gestione del personale, i provvedimenti di autorizzazione, concessione e analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie. Ed infine, con carattere residuale, gli atti attribuiti ai dirigenti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco.
L’elencazione delle competenze di cui alle lettere, da a) a g), del novellato comma 3 dell’art. 51, rivelava una evidente incongruenza.
Appariva incongruo che i provvedimenti di carattere repressivo, sanzionatorio, per loro natura caratterizzati o da mancanza di discrezionalità, o da una discrezionalità di gran lunga minore rispetto a quella che si ha in relazione ai provvedimenti ampliativi, non fossero stati pure direttamente attribuiti ai dirigenti una volta attribuita agli stessi la competenza relativa ai provvedimenti di autorizzazione, concessione e analoghi, cioè in concreto tutti i provvedimenti ampliativi delle facoltà giuridiche del destinatario, il cui rilascio presupponga “accertamenti e valutazioni anche di natura discrezionale”.
Ha posto rimedio a tale inconveniente la Bassanini-ter, la quale, all’art. 2, comma 12, ha inserito nell’art. 6, comma 2, della legge n. 127/97, dopo la lettera f), la lettera f-bis), che contempla tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza e di irrogazione delle sanzioni amministrative in materia di abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale.
Alla domanda se si può ritenere che non sia più necessaria la mediazione statutaria per la attribuzione di questi compiti ai dirigenti è fuori di dubbio che debba darsi una risposta positiva per quanto concerne le fattispecie espressamente elencate nella novellata seconda parte del comma 3.
Perviene a tale conclusione la circolare n. 1/97 del Ministero dell’Interno, nella quale si fa leva sulla circostanza che alla espressione precedentemente usata “spettano”, adesso è stata sostituita l’espressione “sono attribuiti”.
La notazione non coglie nel segno perché la prima espressione non è meno pregnante della seconda.
La ragione è un’altra. E’ rimasta ferma la prima proposizione del comma 3, e cioè l’attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non espressamente riservati dalla legge o dallo statuto agli organi di governo, ma, in relazione alle fattispecie elencate dalla lett. a) alla lett.g), il rinvio allo statuto (ed al regolamento) è circoscritto alle sole modalità. Lo statuto non condiziona più l’attribuzione di queste competenze ai dirigenti, che si deve ritenere discendente direttamente dalla legge, ma può solo intervenire sulle modalità del loro esercizio.
Come esattamente si osserva nella circolare si tratta di “esercizio di poteri propri ed esclusivi”, con la conseguenza che il loro esercizio da parte di soggetti diversi genera atti viziati da incompetenza (non già assoluta, come si assume nella circolare, ma relativa).
Poiché si dispone espressamente che gli atti ampliativi delle facoltà giuridiche dei destinatari sono attribuiti ai dirigenti anche quando siano, come normalmente sono, di natura discrezionale, si devono ritenere travolte quelle disposizioni statutarie le quali escludono dalle competenze dirigenziali gli atti discrezionali.
Per quanto concerne i compiti non espressamente indicati al comma 3 del novellato art. 51, alla stregua della legge n. 127/97, era da ritenere che occorresse la mediazione dell’atto normativo dell’ente locale, atteso che la norma contenuta nella prima proposizione del comma (“spettano…”) era rimasta immutata. E la norma contenuta nella prima parte della seconda proposizione (“Sono ad essi attribuiti…”) di per sé non sembra comportare la diretta attribuzione ai dirigenti anche di compiti diversi da quelli esemplificati dalla lett. a) alla lett. g).
Alla luce delle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 29/93, dal d.lgs. n. 80/98 e dal d.lgs. n. 387/98 e recepite, poi, nel Testo Unico degli Enti Locali deve pervenirsi a diversa conclusione.
Infatti l’art. 107, comma 4 del T.U.E.L. dispone che: “ Le attribuzioni dei dirigenti indicate nei commi precedenti possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”. Il comma 5 stabilisce che le vigenti disposizioni che conferiscono agli organi di governo l’adozione di atti di gestione o di atti e provvedimenti amministrativi “ si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti”. Ed infine il comma 6 attribuisce ai dirigenti la responsabilità dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati, “in via esclusiva”.
Non contrasta con quanto si assume la disposizione di cui alla lett. i) del terzo comma dell’art. 107 T.U.E.L., che contempla l’attribuzione di ulteriori compiti ai dirigenti, ad opera dello statuto e dei regolamenti, o in base a questi, delegati dal sindaco, la quale ha un’utile funzione di chiusura.









2. Il dirigente della polizia locale

Dopo un breve excursus sulla evoluzione della dirigenza locale passiamo ora ad esaminare un caso particolare di dirigente locale: il comandante della polizia locale.
Una autorevole dottrina sostiene che la legge sull’ordinamento della polizia municipale propende per la esclusiva dipendenza del comandante della p.m. dal capo dell’amministrazione al di fuori di ogni rapporto di dipendenza sia da un dirigente amministrativo sia dal segretario comunale.
Di contro altri autori sostengono che la dipendenza del comandante della polizia municipale dal sindaco non è concepita in termini di esclusività, dal momento che non si parla di responsabilità esclusiva, bensì si dice semplicemente che “è responsabile verso il Sindaco”, responsabilità che tra l’altro in qualche modo ricade su ogni dipendente comunale, essendo comunque il sindaco il capo dell’amministrazione, senza che ciò significhi escludere quella che è la dipendenza dagli organi burocratici dell’ente. In altre parole “accanto ai tradizionali rapporti di servizio del comandante con il segretario comunale ed i competenti capi-ripartizione, la legge configura una particolare responsabilità dirigenziale del comandante nei rispetti del Sindaco”. In ogni caso la responsabilità verso il capo dell’amministrazione è limitata dall’art. 9 della citata legge 65/86 solo ad “addestramento, disciplina ed impiego tecnico-operativo degli appartenenti al corpo”.
E’ in questa chiave che va letto anche l’art. 2, ove si riconoscono in capo al sindaco od all’assessore delegato le competenze ad impartire direttive, vigilare sull’espletamento del servizio ed adottare i provvedimenti previsti dalla legge e dai regolamenti. Tra l’altro lo stesso art. 2 in relazione a quest’ultima competenza del capo dell’esecutivo, quella di adozione di provvedimenti, la limita espressamente solo a quelli previsti da leggi o da regolamenti e non si riferisce, come invece avrebbe potuto fare, ad ogni provvedimento in materia.
Anche da ciò sembra potersi desumere il necessario rinvio ai fini dell’esatta individuazione delle competenze del capo dell’amministrazione comunale ad altra fonte del diritto. Ed è qui che entrano in gioco la L. 142/90 ed il d.lgs. 29/93 i quali hanno ben posto i confini tra quelle che sono le competenze proprie degli organi gestionali.
Dalle predette si desume come la natura delle direttive che il sindaco può impartire sia evidentemente di indirizzo politico.
Non tutta la dottrina è però concorde con la tesi qui sostenuta. Vi è infatti chi ritiene che in assenza di ogni diversa previsione a livello regolamentare locale per effetto della L. n. 65/86 il segretario comunale sia escluso da “qualsiasi rilevanza nella materia di polizia municipale” non frapponendosi l’intermediazione burocratico-amministrativa del segretario comunale tra comandante e vertice politico, rispondendo il comandante di tutto al sindaco. Da altri si ritiene che il rapporto tra segretario comunale e comandante della polizia municipale debba trovare in sede regolamentare una disciplina apposita e differenziata rispetto a quella dettata relativamente al coordinamento dei dirigenti e responsabili degli “uffici e servizi ordinari dell’amministrazione locale”, in quanto quello della polizia municipale costituirebbe per questa dottrina una sorta di “ordinamento nell’ordinamento comunale, alimentato da fonti proprie che ne fanno un vero e proprio ordinamento settoriale compiuto e autosufficiente dal vertice alla base, con principi fondanti, attestati addirittura nella Costituzione e nella legge-quadro statale”, fermo restando che quello tra comandante e vertice politico sembra configurarsi quale modello di un rapporto diretto tra referente politico e referente tecnico, senza intermediazione alcuna.
Si è anche affermato come mentre il d.lgs. 29/93 ha definito i principi disciplinanti l’organizzazione generale della pubblica amministrazione, la legge n. 65/86 ha ad oggetto i caratteri propri dell’organizzazione di un settore specifico ed autonomo, per cui questi ultimi non sarebbero stati oggetto di automatica sostituzione da parte dei primi, seppur non potendo neanche ritenersi quelli impermeabili a questi, necessitando un contemperamento tra gli uni e gli altri, da realizzarsi a livello di potestà regolamentare dell’ente locale.
Si è anche sostenuto essere riservato alla fonte regolamentare comunale tra l’altro il rapporto tra comandante della polizia municipale e vertice politico ritenendo rappresentare addirittura una violazione indiretta dell’art. 128 Cost., il disciplinare detta fattispecie con legge regionale.
Sulla tematica in argomento si è espresso, seppur non in modo del tutto esaustivo, anche il Ministero dell’Interno il quale nello stesso momento in cui afferma che il comandante risponde al sindaco o suo delegato di addestramento, disciplina ed impiego tecnico-operativo degli addetti statuisce anche che è al regolamento comunale o, in mancanza alla potestà ordinatoria del sindaco, che spetta “stabilire la organizzazione anche burocratica dei servizi”.
In giurisprudenza si è in un primo momento ritenuto che essendo il comandante della polizia municipale posto alle dirette dipendenze del sindaco, ai sensi degli artt. 2 e 3 legge n. 65/86, sia esclusa l’interposizione tra il primo ed il secondo di altro organo burocratico, ma successivamente in secondo grado si è affermato che “L’art. 3, legge 7 marzo 1986, n. 65 ha valore programmatico e demanda al regolamento comunale di polizia municipale la concreta attuazione del principio in virtù del quale al relativo servizio è attribuita una posizione particolare, piuttosto che un’altra, nell’ambito dell’organizzazione comunale, di talchè l’incardinazione del servizio medesimo all’interno di una struttura dirigenziale più ampia, che implica l’assoggettamento del comandante di vigili urbani alle direttive del dirigente per il coordinamento di tutti gli uffici dipendenti, non elide, né modifica la diretta responsabilità del comandante stesso verso il sindaco in ordine all’addestramento, alla disciplina e all’impiego tecnico-operativo degli appartenenti al corpo di polizia municipale, la quale concerne soltanto tali aspetti, precisando come “ la sovraordinazione del dirigente del Settore I rispetto al servizio polizia municipale, derivante dall’inclusione di tale servizio nello stesso Settore I, non va intesa…come piena ed assoluta, così da comportare un rapporto di gerarchia in senso stretto tra il dirigente di settore e il comandante del Corpo”.
“Ne deriva…prescindendo dagli eventuali profili di contraddittorietà ipotizzati nella sentenza appellata, una posizione particolare del comandante della polizia municipale”, tenuto ad osservare le direttive che il dirigente potrà impartire per il necessario coordinamento dell’attività di polizia municipale con quelle svolte dagli altri servizi del settore…in relazione alle possibili interferenze e connessioni che tale attività può avere con le diverse funzioni, afferenti agli affari generali e istituzionali, attribuite a tali servizi, conservando, peraltro, una più ampia autonomia per quel che attiene alla disciplina interna e all’impiego tecnico-operativo degli appartenenti al Corpo, rispondendo, limitatamente a tali profili, direttamente al sindaco, come previsto dall’art. 9 della L. n. 65/86”.
Di contro il Consiglio di Stato ha affermato in una successiva sentenza che: “ La Polizia Municipale, una volta eretta in Corpo, non può essere considerata una struttura intermedia ( nella specie una sezione) in una struttura burocratica più ampia (in un settore amministrativo) né, per tale incardinamento, essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura. L’Ufficiale più alto in grado del Corpo deve avere la responsabilità del Corpo e rispondere direttamente al Sindaco delle relative attività. Tale posizione, deve aggiungersi, non è affidabile ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un appartenente al Corpo di polizia municipale.”
Possiamo, dunque, affermare che alla luce della più recente giurisprudenza il comandante del corpo di polizia municipale è responsabile verso il Sindaco della gestione del personale appartenente al corpo e non può essere posto nell’esercizio delle sue funzioni alle dipendenze di un dirigente amministrativo e né tantomeno può essere sottoposto al segretario comunale.
I principi dell’autonomia organizzativa e della dipendenza funzionale della polizia municipale e del suo comandante vigenti sulla scorta della legge quadro n. 65/86 –riconosciuti dal Consiglio di Stato e dai Tribunali Amministrativi in varie regioni italiane e che vediamo di recente ribaditi anche nei contratti collettivi di lavoro del personale enti locali- assumono nella nostra Regione un vincolo giuridico rilevante.
Infatti il legislatore regionale ha espressamente statuito la dipendenza funzionale ed amministrativa del comandante della polizia locale e la sua collocazione al livello apicale dell’ente di appartenenza, riconoscendo dirigenziale la direzione della polizia locale e disponendo così ex lege l’autonoma collocazione della p.m. nella struttura comunale.
Infatti dalla lettura del combinato disposto degli artt. 11, comma 7 e 14, comma 4 della legge regionale n. 12/2003 in relazione agli artt. 2 e 9 della legge n. 65/86 e all’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000 emerge che nel rispetto del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni attinenti la gestione operativa dei servizi di sicurezza urbana, i comandanti della polizia locale dipendono unicamente dal sindaco o dal presidente della provincia. Gli stessi gestiscono le risorse umane, tecniche e finanziarie assegnate.
Va sottolineato, altresì, che la polizia municipale è chiamata a svolgere un ruolo polifunzionale, al servizio della comunità locale e di quella nazionale, rispondendo a diverse autorità oltre a quella comunale e da qui la necessità di una normativa speciale che riconosce al comandante del corpo di polizia municipale, ovvero al soggetto che ha lo status giuridico di comandante della p.m., quella specificità e quella autonomia che sono gli elementi di peculiarità e di atipicità che lo contraddistinguono dagli altri dirigenti delle massime strutture dell’ente.
Tuttavia per avere un quadro completo della problematica afferente la polizia locale bisogna esaminare anche la normativa contrattuale che ne disciplina il rapporto di lavoro e tentare una operazione di coordinamento con il descritto quadro legislativo nazionale e regionale.
Si ricorda che con l’entrata in vigore dei tre contratti collettivi nazionali di lavoro rispettivamente afferenti all’ordinamento professionale, alle collocazioni giuridiche ed economiche del personale delle Regioni ed Enti Locali, si sono profilati nuovi sistemi di inquadramento modificanti la preesistente “qualifica funzionale” e, collocando, per effetto del raggiunto accordo, gli agenti di polizia municipale e locale nella categoria “C” ai sensi del disposto normativo di cui all’art. 7, comma 4, del contratto di lavoro disciplinante il nuovo ordinamento professionale. Conseguentemente e per effetto della norma di cui all’art. 29 delle cosiddette “code contrattuali”, veniva disposto che per quanti inquadrati, a seguito di regolare concorso, nella vecchia normativa contrattuale nella ex sesta qualifica funzionale e svolgenti funzioni di coordinamento e controllo, si procedesse alla ricollocazione nella categoria “D”. Si ricorda che -come è già stato accennato nelle pagine che precedono- la polizia municipale, rispetto all’ordinamento generale dei comuni ed enti locali in genere, svolge le proprie funzioni e trova la propria effettiva collocazione giusta la legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale n. 65/86, la quale non è stata intaccata minimamente nella sua struttura principale e di principio giuridico, dal ciclone legislativo che ha investito lo status dei dipendenti degli enti locali così come si evince dall’art. 73, comma 3, decreto legislativo n. 29/93 e successivamente art. 70 D.Lgs. n. 165/2001. Infatti, rispetto agli stessi, la polizia municipale ha qualità di polizia e svolge funzioni di polizia amministrativa e polizia giudiziaria come più volte confermato dalla corrente giurisprudenza.
Come chiaramente si evidenzia la polizia municipale è distinta dal contesto generale dell’ente ed organizzata secondo strutture gerarchico-funzionali e con distinti profili professionali .
La collocazione, con effetto giuridico ed economico dal 1.1.1998, degli agenti di polizia locale -già inquadrato nella ex quinta qualifica funzionale- nella ex sesta qualifica funzionale e successivamente, per effetto dell’entrata in vigore del nuovo contratto di lavoro siglato in data 1 aprile 1999, nella categoria “C” . La conseguente ricollocazione degli Addetti al coordinamento e al controllo -già inquadrati nella ex sesta qualifica funzionale- per effetto dell’entrata in vigore del contratto di lavoro stipulato in data 14 settembre 2000, nella categoria “D” comporta la collocazione del comandante della polizia locale nella restante qualifica unica dirigenziale, atteso che le posizioni economiche insite nella fascia D sono solo collocazioni stipendiali di natura progressiva economica che niente hanno a che vedere con la collocazione di categoria (o qualifica) superiore.






Infatti l’inserimento nel profilo professionale di Comandante della polizia locale presuppone, in primis, le attribuzioni di compiti di specifica competenza dirigenziale così come previsto dal combinato disposto dell’art. 9 della legge n. 65/86, art. 11, comma 7 della legge regionale n. 12/2003 e 107, D.Lgs. n. 267/2000 e , pertanto il suo corretto inquadramento ai sensi degli artt. 24 e 40 d.p.r. 25 giugno 1983, n. 347 nella qualifica unica dirigenziale .
La collocazione nella medesima fascia di appartenenza degli Addetti al coordinamento e al controllo, anche di un soggetto che svolge funzioni a loro superiori e, quindi con conseguente subordinazione gerarchica tipica di un corpo “militarmente e gerarchicamente organizzato” qual è la polizia municipale, oltre a sperequare il trattamento spettante a chi regolarmente svolge funzioni superiori, fa emergere consistenti difficoltà gestionali in relazione ai vincoli derivanti dall’applicazione del criterio “dell’equivalenza delle mansioni” che deve obbligatoriamente caratterizzare tutte le attività inserite legittimamente nella stessa categoria (o qualifica), secondo l’esplicita previsione dell’art. 52, comma 1, decreto legislativo n. 165/2001. Il citato disposto legislativo non consente la coesistenza, nella medesima categoria, di distinte posizioni di lavoro quando una di queste riveste un ruolo gerarchicamente superiore ad un’altra, sia mediante lo svolgimento di compiti di maggior peso, sia attraverso l’assunzione di più elevate responsabilità.
Va, altresì, evidenziato la particolare attenzione posta alla problematica esposta dal nostro legislatore il quale è orientato a riconoscere la “unicità delle funzioni” a prescindere dalle dimensioni demografiche dell’Ente di appartenenza; laddove al comandante della polizia locale non può ritenersi applicabile il combinato disposto di cui all’art. 50, comma 10 e all’art. 109, comma 2, decreto legislativo n. 267/2000, in quanto le funzioni dirigenziali sono allo stesso attribuite ex lege e non discrezionalmente con provvedimento motivato del Sindaco, fatta salva l’applicazione dell’art. 97, comma 4, lett. d) d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267.
Alla luce dell’art. 36 Cost. e art. 52 D.Lgs. n. 165/2001 si può, in definitiva, sostenere che al principio di unicità delle funzioni consegue l’attribuzione della qualifica unica dirigenziale in capo ai comandanti della polizia locale.
Va, comunque, subito detto che tale principio va temperato ed articolato in relazione ad una maggiore professionalità richiesta ai dirigenti di polizia locale per la gestione di strutture organizzative di grandi dimensioni.
Ad avviso dello scrivente tale problema può essere facilmente risolto in sede di attuazione dell’art. 8 della legge regionale n. 12/2003 mediante l’istituzione di un Albo dei comandanti della polizia locale articolato in fasce professionali.
In conclusione possiamo affermare che da quanto sin qui esposto, ed in applicazione della normativa legislativa e contrattuale vigente in materia di polizia locale, discende:
L’autonoma collocazione del corpo di polizia municipale nella struttura organizzativa del comune (art. 11, comma 7 L.R. n. 12/03 in relazione all’art. 9 L. n. 65/86), e il conseguente inquadramento nella qualifica unica dirigenziale del comandante della polizia locale;
La valutazione da parte del Sindaco o Assessore delegato, delle funzioni (grado di raggiungimento degli obiettivi ecc.) svolte dal comandante p.m. ( artt. 2 e 9 l. n. 65/86);
L’incompetenza del segretario e/o direttore ad impartire direttive al comandante della polizia locale.










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