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nuovi reati in materia di norme antinfortunistiche
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dal sito www.altalex.it Articolo di Paola Balbo 24.09.2007
I nuovi reati in materia di norme antinfortunistiche
di Paola Balbo
Si potrebbe affermare che il cerchio si sta chiudendo. Il progressivo aggancio tra disposizioni in materia di appalti, sicurezza e lavoro ha trovato, sebbene con alcune confusioni derivanti dalla ormai consueta abitudine del nostro legislatore di frullare le norme in una serie di unicum che si innesta su disposizioni vigenti, le modifica, le integra e – mai come in questo caso – si avvia a determinare un microcosmo di disposizioni di riordino che nascendo presumibilmente autonome mostreranno il fianco a potenziali incongruenze dovendo essere seguite da una serie di decreti legislativi sia l’attuale testo unico sulla sicurezza (a quel punto rismembrato in buona sostanza) sia il codice degli appalti in attesa di ulteriori decreti correttivi sull’insieme dei quali si porrà il nuovo regolamento attuativo di circa 363 articoli nato ahinoi tra un decreto correttivo del codice degli appalti e l’altro.
Se questo è il potenziale panorama che ci attende, non possiamo tuttavia non registrare alcune utili variazioni operative da oggi. Il punto di partenza che consente di svolgere in certa misura l’intera matassa è proprio il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle societa' e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300), cui la legge 3 agosto 2007, n. 123 dopo l'articolo 25-sexies ha inserito il seguente:
"Art. 25-septies. - (Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro) - 1. In relazione ai delitti di cui agli articoli 589 e 590, terzo comma, del codice penale, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sui lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote (Ai sensi dell'articolo 10, D.lgs. 231/2001).
2. Nel caso di condanna per uno dei delitti di cui al comma 1, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, D.lgs. 231/2001, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno".
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme (….) per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni.
Come si configura dunque questo tipo di reato? Perché il legislatore lo ha configurato come reato colposo e non come contravvenzione? Quali presupposti di responsabilità le normative vigenti ci profilano? E quali percorsi sono previsti ai fini della prevenzione e della sorveglianza? Cosa si intende per prevenzione e sorveglianza? Tutto ciò quanto si riflette sui ‘costi della sicurezza’ tanto evidenziati con le modifiche al testo vigente? E infine come potrebbe configurarsi una ridefinizione del quadro sanzionatorio attuale?
Non sono quesiti nuovi, lo sappiamo, ma certamente sono nuovi gli approcci alla risposte a oltre dodici anni dalla approvazione del testo sulla sicurezza. La novità ci deriva dal fatto che il legislatore parte da una ipotizzata razionalizzazione dell’esistente e dall’introduzione di un sistema operativo integrato nel quale ruoli ben definiti devono interrelarsi ed intrecciarsi come e meglio di quanto non avessero fatto in precedenza.
Per rispondere a questi quesiti è inoltre necessario ripercorrere i lavori parlamentari per scoprire la filosofia che ha guidato il legislatore a prescindere dalla forma ultima impiegata (la legge delega) per arrivare alla meta e forma che, se mai, sarà oggetto di una valutazione a posteriori legata alla interpretazione che di tale volontà il Governo darà nella approvazione dei decreti legislativi previsti all’art. 1 della legge n. 123/2007.
Tanto la proposta di legge alla Camera n. 2520 quanto il parere della 2° Commissione Permanente (Giustizia) sul disegno di legge al Senato n. 1507 sottolineano l’esigenza di intervenire sul D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in ipotesi di reati commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro. La proposta C-2520 individua nella sollecitazione alle imprese a prevenire gli illeciti aziendali al fine di prevenire le conseguenti sanzioni la filosofia ispiratrice del nuovo art. 25-septies pungolando “gli enti – società, persone giuridiche, enti pubblici non economici, enti privi della personalità giuridica – ad adottare e attuare modelli di organizzazione e di gestione il cui obiettivo è la prevenzione, o la repressione, di reati dei vertici aziendali” accentuando dunque la ‘responsabilità sociale’ delle imprese. In entrambi i testi tuttavia si nota una sfumatura attenuata che è scomparsa nel testo definitivo. Nell’attuale testo, infatti, scompare la congiunzione ipotetica ‘se’(In relazione ai delitti di cui agli articoli 589 e 590, terzo comma, del codice penale, se commessi….) e la sanzione pecuniaria indicata nel proposta C-2520 tra 800 e mille quote e nel parere tra 200 e 600 quote diventa ‘non inferiore a mille’. Muta anche il comma 2. Nella proposta C-2520 era ‘Nei casi previsti dal comma 1 del presente articolo, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere b) e c)’, e nel parere era nel senso della sua applicazione ‘per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore ad un anno’, mentre nel testo ora vigente è divenuto non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. Non solo, nel parere si faceva un diretto richiamo anche all’art. 437 c.p. in materia di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro che non ritroviamo confermato nella disposizione approvata.
A ciò va aggiunta la relazione alla proposta di legge alla Camera n. 2137 sulle norme a tutela dei diritti individuali e collettivi in materia di sicurezza e igiene sul lavoro. Si tratta di un testo di legge composto di tre soli articoli la cui natura è tuttavia illuminante sulle intenzioni del legislatore. Nella previsione di controlli maggiori e procedimenti più rigorosi in materia di prevenzione e di repressione dei reati si fa richiamo, nella presentazione della proposta, al fatto che “in numerosi procedimenti penali per reati connessi alla violazione di norme di prevenzione, l’imputato chiede di patteggiare la pena limitando così le conseguenze a proprio carico, senza tuttavia neppure offrire le garanzie di una rimozione delle cause di danno”. Ne consegue che deterrente contro questo mal costume invalso debba essere quello di “condizionare l’ammissione alla procedura di patteggiamento alla rimozione della situazione di pericolo e all’avvenuto risarcimento del danno (oppure, per evitare possibili speculazioni, equiparare al risarcimento del danno l’offerta reale di una somma ritenuta congrua da parte del giudice); completare l’apparato sanzionatorio con riferimenti a sanzioni aggiuntive di carattere amministrativo e all’applicazione obbligatoria, in casi determinati, di pene accessorie particolarmente efficaci, quali l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e l’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione”. Cominciamo a comprendere qui il perché delle intervenute modifiche al D.l. n. 223/2006 sul quale entreremo dopo.
Contemporaneamente troviamo una importante chiave di lettura della volontà del legislatore sull’apparato sanzionatorio e sul fine che le sanzioni devono avere. Suscita pertanto qualche perplessità degna di attenzione la prima parte del parere citato nel quale si legge: “ La Commissione, esaminato il provvedimento, per quanto di propria competenza, esprime un parere favorevole, ad eccezione dell’articolo 1, comma 2, lettera f), in materia di sanzioni, sul quale il parere è contrario. Rileva altresì l’opportunità di ridurre i termini della delega al Governo.
Per quanto concerne il regime delle sanzioni, i cui principi e criteri direttivi sono contenuti all’articolo 1, comma 2, lettera f), la Commissione ritiene che le soluzioni adottate siano eccessivamente blande e non idonee a reprimere penalmente un fenomeno così grave. In particolare, l’indicazione delle sole sanzioni dell’arresto e dell’ammenda, previste nei casi in cui le infrazioni ledano gli interesse generali dell’ordinamento in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, per di più da comminare in via anche alternativa, risulta oltremodo effimera, perchè configura le violazioni di norme antinfortunistiche da parte dei datori di lavoro o degli altri soggetti quali semplici contravvenzioni. Ciò risulta inaccettabile, mentre continuano a verificarsi incidenti sul lavoro in ogni parte d’Italia e considerando la gravità dei reati perpetrati, rispetto ai quali è palese la sproporzionata irrisorietà della sanzione penale proposta e quindi la non dissuasività della medesima. Come è perfettamente comprensibile da chiunque, l’entità microscopica della sanzione, la mortificante sproporzione tra la stessa e il «titanico precetto» del quale essa è posta a presidio, rende desolantemente la norma proposta, come la stragrande maggioranza di quelle poste a difesa del lavoro e dei lavoratori, appena meno seria ed imperativa di una grida della Milano del diciassettesimo secolo. Inoltre la scelta per la natura contravvenzionale delle sanzioni è tale da incidere sul regime della prescrizione, considerando che i reati contravvenzionali si prescrivono in quattro anni.
Alla luce di queste considerazioni, la Commissione ritiene doversi procedere ad una correzione della parte relativa al regime delle sanzioni penali, prevedendo che i fatti più gravi (comportamenti/omissioni gravi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro) siano puniti come delitti e quindi con la pena della reclusione e/o della multa. Si auspica inoltre, all’articolo 1, comma 2, lettera f), n. 3, in tema di sanzioni amministrative, la sostituzione delle parole: «fino ad euro 100 mila» con le altre: «da euro 20.000 a euro 100.000 mila»”.
Le sanzioni interdittive previste dall’articolo del codice penale sono:
a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Appare utile introdurre, al fine di valutare la portata di quanto il legislatore ha disposto, la contemporanea modifica del D.l. n. 223 del 2006 conv. con legge n. 248 del 2006 con l’art. 36-bis:
«Dl. 223/06 - Art. 36-bis. Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro
1. Al fine di garantire la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori nel settore dell’edilizia, nonché al fine di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso ed irregolare ed in attesa dell’adozione di un testo unico in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, ferme restando le attribuzioni del coordinatore per l’esecuzione dei lavori di cui all’articolo 5, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494, e successive modificazioni, nonché le competenze in tema di vigilanza attribuite dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza, il personale ispettivo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, anche su segnalazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), può adottare il provvedimento di sospensione dei lavori nell’ambito dei cantieri edili qualora riscontri l’impiego di personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori regolarmente occupati nel cantiere ovvero in caso di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui agli articoli 4, 7 e 9 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, e successive modificazioni. I competenti uffici del Ministero del lavoro e della previdenza sociale informano tempestivamente i competenti uffici del Ministero delle infrastrutture dell’adozione del provvedimento di sospensione al fine dell’emanazione da parte di questi ultimi di un provvedimento interdittivo alla contrattazione con le pubbliche amministrazioni ed alla partecipazione a gare pubbliche di durata pari alla citata sospensione nonché per un eventuale ulteriore periodo di tempo non inferiore al doppio della durata della sospensione, e comunque non superiore a due anni. A tal fine, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Ministero delle infrastrutture e il Ministero del lavoro e della previdenza sociale predispongono le attività necessarie per l’integrazione dei rispettivi archivi informativi e per il coordinamento delle attività di vigilanza ed ispettive in materia di prevenzione e sicurezza dei lavoratori nel settore dell’edilizia.
2. È condizione per la revoca del provvedimento da parte del personale ispettivo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale di cui al comma 1:
a) la regolarizzazione dei lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria; b) l’accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro nelle ipotesi di reiterate violazioni alla disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale, di cui al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, e successive modificazioni. È comunque fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali e amministrative vigenti; b-bis) il pagamento di una sanzione amministrativa aggiuntiva rispetto a quelle di cui alla lettera b), ultimo periodo, pari ad un quinto delle sanzioni amministrative complessivamente irrogate (lettera aggiunta dall'articolo 5, comma 5, decreto legislativo n. 113 del 2007).
3. Nell’ambito dei cantieri edili i datori di lavoro debbono munire, a decorrere dal 1º ottobre 2006, il personale occupato di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro. I lavoratori sono tenuti ad esporre detta tessera di riconoscimento. Tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nei cantieri, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto. Nei casi in cui siano presenti contemporaneamente nel cantiere più datori di lavoro o lavoratori autonomi, dell’obbligo risponde in solido il committente dell’opera.
4. I datori di lavoro con meno di dieci dipendenti possono assolvere all’obbligo di cui al comma 3 mediante annotazione, su apposito registro di cantiere vidimato dalla Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente da tenersi sul luogo di lavoro, degli estremi del personale giornalmente impiegato nei lavori. Ai fini del presente comma, nel computo delle unità lavorative si tiene conto di tutti i lavoratori impiegati a prescindere dalla tipologia dei rapporti di lavoro instaurati, ivi compresi quelli autonomi per i quali si applicano le disposizioni di cui comma 3.
5. La violazione delle previsioni di cui ai commi 3 e 4 comporta l’applicazione, in capo al datore di lavoro, della sanzione amministrativa da euro 100 ad euro 500 per ciascun lavoratore. Il lavoratore munito della tessera di riconoscimento di cui al comma 3 che non provvede ad esporla è punito con la sanzione amministrativa da euro 50 a euro 300. Nei confronti delle predette sanzioni non è ammessa la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.
6. L’articolo 86, comma 10-bis, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, è sostituito dal seguente: «10-bis. Nei casi di instaurazione di rapporti di lavoro nel settore edile, i datori di lavoro sono tenuti a dare la comunicazione di cui all’articolo 9-bis, comma 2, del decreto-legge 1º ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni, il giorno antecedente a quello di instaurazione dei relativi rapporti, mediante documentazione avente data certa.»
7. All’articolo 3 del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il comma 3 è sostituito dal seguente:
«3. Ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, è altresì punito con la sanzione amministrativa da euro 1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata.»; b) il comma 5 è sostituito dal seguente:
«5. Alla irrogazione della sanzione amministrativa di cui al comma 3 provvede la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente. Nei confronti della sanzione non è ammessa la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.»
8. Le agevolazioni di cui all’articolo 29 del decreto-legge 23 giugno 1995, n. 244, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1995, n. 341, trovano applicazione esclusivamente nei confronti dei datori di lavoro del settore edile in possesso dei requisiti per il rilascio della certificazione di regolarità contributiva anche da parte delle Casse edili. Le predette agevolazioni non trovano applicazione nei confronti dei datori di lavoro che abbiano riportato condanne passate in giudicato per la violazione della normativa in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro per la durata di cinque anni dalla pronuncia della sentenza» da leggere in combinato disposto con l’art. 35, commi da 28 a 33 dello stesso D.l.:
«Art. 35 commi: 28. L'appaltatore risponde in solido con il subappaltatore della effettuazione e del versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dei dipendenti a cui è tenuto il subappaltatore.
29. La responsabilità solidale viene meno se l'appaltatore verifica, acquisendo la relativa documentazione prima del pagamento del corrispettivo, che gli adempimenti di cui al comma 28 connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l'opera, la fornitura o il servizio affidati sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore. L'appaltatore può sospendere il pagamento del corrispettivo fino all'esibizione da parte del subappaltatore della predetta documentazione.
30. Gli importi dovuti per la responsabilità solidale di cui al comma 28 non possono eccedere complessivamente l'ammontare del corrispettivo dovuto dall'appaltatore al subappaltatore.
31. Gli atti che devono essere notificati entro un termine di decadenza al subappaltatore sono notificati entro lo stesso termine anche al responsabile in solido. La competenza degli uffici degli enti impositori e previdenziali è comunque determinata in rapporto alla sede del subappaltatore.
32. Il committente provvede al pagamento del corrispettivo dovuto all'appaltatore previa esibizione da parte di quest'ultimo della documentazione attestante che gli adempimenti di cui al comma 28 connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l'opera, la fornitura o il servizio affidati sono stati correttamente eseguiti dall'appaltatore.
33. L'inosservanza delle modalità di pagamento previste al comma 32 è punita con la sanzione amministrativa da euro 5.000 a euro 200.000 se gli adempimenti di cui al comma 28 connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l'opera, la fornitura o il servizio affidati non sono stati correttamente eseguiti dall'appaltatore e dagli eventuali subappaltatori. Ai fini della presente sanzione si applicano le disposizioni previste per la violazione commessa dall'appaltatore. La competenza dell'ufficio che irroga la presente sanzione è comunque determinata in rapporto alla sede dell'appaltatore».
Diventa allora indispensabile individuare in cosa consista allo stato attuale la violazione delle norme di sicurezza. Appare infatti intuitivo che sarebbe stato sufficiente un inasprimento delle sanzioni attuali con la connessa effettiva applicazione se nulla fosse variato nel concetto in sé. Invece ci troviamo a fare i conti con una realtà in fase di mutamento. Stante il parere della 2° Commissione Permanente la volontà del legislatore e le conseguenti interpretazione conforme – se non autentica - ed applicazione dovrebbe andare nel senso:
che la valutazione dei rischi deve riguardare, oltre ai rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, anche i potenziali pericoli per la popolazione;
di misure di tutela più intensa per specifiche tipologie di lavoro, anche in considerazione della particolare nocività di alcuni ambienti di lavoro, compreso quello domestico, riservando altresì una particolare attenzione al lavoro precario e alla violenza psicologica (mobbing)1;
di nuove modalità di attuazione della sorveglianza sanitaria, da adeguare alle differenti forme organizzative del lavoro, nonché ai criteri e alle linee guida scientifiche più avanzate, estendendole, per particolari tipi di lavorazioni ed esposizioni, anche oltre il termine del rapporto di lavoro,
della redazione obbligatoria da parte del committente di un piano di sicurezza e di coordinamento che tenga conto dell’utilizzazione comune di infrastrutture, impianti e misure di protezione collettiva, nel quale siano definite anche le procedure da eseguire in caso di emergenza, le responsabilità del committente;
della redazione obbligatoria in forma scritta, da parte dell’impresa esecutrice dei lavori, del piano di sicurezza specifico per i lavori affidati, da trasmettere al committente e all’organo di vigilanza prima dell’inizio dei lavori;
della concretizzazione della responsabilità in solido di cui all’art. 35 del D.l. 223 del 2006 tra primo appaltatore e subappaltatore, con l’obbligo di vigilanza in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali da parte del primo appaltatore nei confronti di tutti gli appaltatori successivi, e altresì l’obbligo (che si configura anche come responsabilità solidale) di cooperazione e coordinamento tra committente ed appaltatore o subappaltatori, per prevenire i rischi derivanti dall’ambiente del committente e dall’interferenza tra i vari lavori.
Tutto ciò si inquadra nella applicazione di un principio di derivazione comunitaria: il principio di precauzione, che il legislatore italiano ha inteso, si legge sempre nel parere come “norma fondamentale e vincolante che ogni produttore, importatore/esportatore o commerciante deve applicare, documentando in via preventiva, e in modo rigoroso, alle autorità preposte l’innocuità a breve, a medio e a lungo termine della sostanza/prodotto o della tecnologia che intende produrre, impiegare o commercializzare. Ciò al fine di impedire l’esposizione ad agenti e sostanze di cui non sia accertato il livello di pericolosità, considerando che per gli agenti e le sostanze tossiche e cancerogene non esiste un livello al di sotto del quale non vi sia rischio oncogeno per i soggetti esposti”. Il legislatore europeo ha inteso il principio di precauzione come quel principio che “può essere invocato quando è necessario un intervento urgente di fronte a un possibile pericolo per la salute umana, animale o vegetale, ovvero per la protezione dell'ambiente nel caso in cui i dati scientifici non consentano una valutazione completa del rischio. Esso non può essere utilizzato come pretesto per azioni aventi fini protezionistici. Tale principio viene soprattutto applicato nei casi di pericolo per la salute delle persone. Esso consente, ad esempio, di impedire la distribuzione dei prodotti che possano essere pericolosi per la salute ovvero di ritirare tali prodotti dal mercato”2.
Capiamo anche il perché, nella proposta di legge C-2137 gli articoli 23 e 34 si soffermassero sulle condizioni di ammissibilità alla procedura di applicazione della pena su richiesta e sulle sanzioni aggiuntive e le pene accessorie e si intuisce verso quale direzione possa orientarsi l’indagine sulla omissione piuttosto che la lesione grave o gravissima. Non appare tuttavia altrettanto pregnante lo spostamento sul D.l. 223 del 2006 che finisce per mantenere un riflesso più finanziario che ‘special preventivo’ all’indirizzo della prevenzione e sorveglianza. Si perde al tempo stesso il prezioso riferimento agli articoli 32-bis e 32-ter c.p., mentre appare sicuramente importante la possibilità di applicare una interdizione nei confronti della persona giuridica che non attui il piano organizzativo come richiesto dal novellato D.lgs. n. 231/2001.
Questo piano organizzativo, nato essenzialmente nello spirito primario della legge per sanzionare le società e le persone giuridiche in via principale ove non si tutelassero da fenomeni di infiltrazione mafiosa e/o di corruzione, si estende ora al tema della sicurezza e la domanda al momento utopistica, in quanto nulla conforta gli interpreti circa tanta lungimiranza del legislatore determinato ad intervenire a fronte di violazioni crescenti con morti sul lavoro e la necessità di rispondere ad una domanda sociale più che estensiva, è se ciò non possa far sperare che fra gli interventi che seguiranno troverà anche a livello nazionale la sua giusta collocazione il reato ambientale, tanto più che lo spazio ci sarebbe se andiamo a vedere il richiamo alla tutela anche della popolazione e non solo dei lavoratori e dell’ambiente di lavoro e il principio di precauzione. Costituisce tuttavia ultimo elemento di valutazione ed interpretazione quanto modificato circa le figure coinvolte nel controllo e precisamente rappresentante dei lavoratori, medico competente, rappresentante dei lavoratori di comparto e organi paritetici. Si realizza, attraverso le modifiche introdotte, il tassello mancante per una effettiva attuazione del controllo. Il richiamare i poteri/doveri del datore di lavoro rispetto a medico competente, rappresentante per la sicurezza e comitati paritetici altro non vuol dire che un apertura ed un approccio corretto collaborativi a fini non esclusivamente di sorveglianza in itinere, ma soprattutto di prevenzione e controllo dell’esistente e del rischio in fieri. L’accentuazione posta sul registro infortuni, come sul data base, come ben sottolineava anche la proposta di legge alla camera n. 1450, e il sottolineare la obbligatorietà del datore di lavoro di fornire non solo copia dei piani di sicurezza ma anche del registro infortuni la cui violazione, nella proposta di legge C-2137, era evidenziata dalla possibilità di ricorrere da parte del rappresentante agli strumenti di tutela offerti dallo Statuto dei lavoratori in caso di comportamenti del datore di lavoro diretti ad impedire o limitare l’esercizio dei diritti ex art. 19 del D.lgs n. 626 del 1994.
Se questo è il quadro attuale, una attenta rilettura delle sanzioni previste dall’attuale testo di legge agli articoli 89 e seguenti del D.lgs. n. 626/1994 conferma l’urgenza di una razionalizzazione ed una semplificazione. Al tempo stesso dalla analisi degli articoli passibili di sanzioni in caso di violazione delle prescrizioni rintracciamo sia le ipotesi che potrebbero configurare, in caso di mancato adempimento, gli estremi del reato di cui al D.lgs. 231/2001, sia le sospensive di cui al D.l. 223/2006. In ogni caso sono presenti sia i dettami che rispondono al principio di precauzione che di tutela del luogo di lavoro e della salute dei lavoratori, ma anche ambientale in senso più ampio. Anzi, proprio dall’esame delle tipologie di omissioni che emergono, è possibile dedurre in via di massima ciò che il legislatore abbia inteso con piano organizzativo (esemplificativi in tal senso gli articoli 4 e 78).
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1 Non possiamo a tal riguardo non richiamare la sentenza n. 18262 del 29 agosto 2007 nella quale la Cass, sez. civ. ha sottolineato comunque la responsabilità datoriale in casi di mobbing messi in atto all’interno di una azienda.
2 Riportiamo qui di seguito quanto comunicato in tal senso dalla Commissione europea a completezza dell’argomentazione.
Comunicazione della Commissione, del 2 febbraio 2000, sul ricorso al principio di precauzione [COM(2000) 1 def. - Non pubblicata sulla Gazzetta ufficiale].
SINTESI
Il Trattato CE contiene un solo riferimento esplicito al principio di precauzione, e più precisamente, nel titolo consacrato alla protezione ambientale. Tuttavia, nella pratica, il campo d'applicazione del principio è molto più vasto e si estende anche alla politica dei consumatori e alla salute umana, animale o vegetale.
In assenza di una definizione del principio di precauzione nel Trattato o in altri testi comunitari il Consiglio, nella sua risoluzione del 13 aprile 1999, ha chiesto alla Commissione di elaborare degli orientamenti chiari ed efficaci al fine dell'applicazione di detto principio. La comunicazione della Commissione costituisce una risposta a questa domanda.
La fissazione di orientamenti comuni riguardanti l'applicazione del principio di precauzione avrà anche ripercussioni positive a livello internazionale.
Il principio è stato adottato in varie convenzioni internazionali ed il suo concetto figura in special modo nell'Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS) concluso nel quadro dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
Una definizione chiara del modo con cui la Comunità intende fare ricorso al principio di precauzione per garantire un livello idoneo di protezione ambientale e della salute può contribuire alle discussioni già iniziate negli ambienti internazionali.
Nella sua comunicazione, la Commissione analizza rispettivamente i fattori che provocano il ricorso al principio di precauzione e le misure risultanti da un tale ricorso. Essa propone anche orientamenti per l'applicazione del principio.
I fattori che originano il ricorso al principio di precauzione
Secondo la Commissione, il principio di precauzione può essere invocato quando gli effetti potenzialmente pericolosi di un fenomeno, di un prodotto o di un processo sono stati identificati tramite una valutazione scientifica e obiettiva, ma quando questa valutazione non consente di determinare il rischio con sufficiente certezza. Il ricorso al principio si iscrive pertanto nel quadro generale dell'analisi del rischio (che comprende, oltre la valutazione del rischio, la gestione e la comunicazione del rischio) e più particolarmente nel quadro della gestione del rischio che corrisponde alla presa di decisione.
La Commissione sottolinea che il principio di precauzione può essere invocato solo nell'ipotesi di un rischio potenziale, e che non può in nessun caso giustificare una presa di decisione arbitraria.
Il ricorso al principio di precauzione è pertanto giustificato solo quando riunisce tre condizioni, ossia: l'identificazione degli effetti potenzialmente negativi, la valutazione dei dati scientifici disponibili e l'ampiezza dell'incertezza scientifica.
Le misure risultanti dal ricorso al principio di precauzione
Per quanto riguarda le misure risultanti dal ricorso al principio di precauzione, esse possono prendere la forma di una decisione di agire o di non agire.
La risposta scelta dipende da una decisione politica, che è funzione del livello di rischio considerato come "accettabile" dalla società che deve sostenere detto rischio.
Quando agire senza attendere maggiori informazioni scientifiche sembra essere la risposta appropriata a un rischio in virtù dell'applicazione del principio di precauzione, bisogna ancora determinare la forma che deve prendere questa azione. Oltre all'adozione di atti giuridici suscettibili di controllo giuridico, tutta una serie di azioni è a disposizione dei responsabili (finanziamento di un programma di ricerca, informazione del pubblico quanto agli effetti negativi di un prodotto o di un processo, ecc.).
In nessun caso la scelta di una misura dovrebbe basarsi su una decisione arbitraria.
Orientamenti per il ricorso al principio di precauzione
Tre principi specifici dovrebbero sottendere il ricorso al principio di precauzione:
l'attuazione del principio dovrebbe fondarsi su una valutazione scientifica la più completa possibile. Detta valutazione dovrebbe, nella misura del possibile, determinare in ogni istante il grado d'incertezza scientifica;
qualsiasi decisione di agire o di non agire in virtù del principio di precauzione dovrebbe essere preceduta da una valutazione del rischio e delle conseguenze potenziali dell'assenza di azione;
non appena i risultati dalla valutazione scientifica e/o della valutazione del rischio sono disponibili, tutte le parti in causa dovrebbero avere la possibilità di partecipare allo studio delle varie azioni prevedibili nella maggiore trasparenza possibile.
Oltre a questi principi specifici, i principi generali di una buona gestione dei rischi restano applicabili allorché il principio di precauzione viene invocato. Si tratta dei cinque seguenti principi:
- la proporzionalità tra le misure prese e il livello di protezione ricercato;
- la non discriminazione nell'applicazione delle misure;
- la coerenza delle misure con quelle già prese in situazioni analoghe o che fanno uso di approcci analoghi;
- l'esame dei vantaggi e degli oneri risultanti dall'azione o dall'assenza di azione;
- il riesame delle misure alla luce dell'evoluzione scientifica.
L'onere della prova
Al di fuori delle regole che si applicano ai prodotti quali le medicine, gli anticrittogamici o gli additivi alimentari, la legislazione comunitaria non prevede un sistema di autorizzazione preventivo all'immissione sul mercato dei prodotti. Nella maggior parte dei casi, spetta pertanto all'utilizzatore, ai cittadini o alle associazioni di consumatori di dimostrare il pericolo associato a un processo o a un prodotto dopo che questo è stato immesso sul mercato.
Secondo la Commissione, un'azione presa a titolo del principio di precauzione può in taluni casi comportare una clausola d'inversione dell'onere della prova sul produttore, il fabbricante o l'importatore. Questa possibilità dovrebbe essere esaminata caso per caso; la Commissione non preconizza l'estensione generale di un tale obbligo a tutti i prodotti.
3 Art. 2. (Condizioni di ammissibilità alla procedura di applicazione della pena su richiesta).
1. In tutte le ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi degli articoli 444 e seguenti del codice di procedura penale, quando ciò riguarda la sicurezza e igiene sul lavoro, l'ammissione alla procedura è comunque condizionata alla dimostrazione che la situazione di danno o di pericolo è stata rimossa.
2. Qualora sia stata ammessa, nella procedura di cui al comma 1, la costituzione di parte civile o l'intervento di organizzazioni sindacali, deve essere acquisito anche il loro parere in ordine alla effettiva eliminazione delle situazioni di cui al medesimo comma 1.
3. In ogni caso, qualora vi sia costituzione di parte civile, la richiesta di cui all'articolo 444 del codice di procedura penale può essere accolta solo se è dimostrato l'avvenuto risarcimento del danno o dell'offerta formale di risarcimento, in misura che il giudice ritiene congrua.
4 Art. 3. (Sanzioni aggiuntive e pene accessorie).
1. Per tutti i reati in materia di sicurezza e igiene sul lavoro per i quali è prevista anche la pena detentiva, deve essere comminata, in aggiunta alle sanzioni penali specificamente previste, anche la sospensione per due anni dei benefìci contributivi eventualmente goduti dall'azienda responsabile.
2. Alla condanna del datore di lavoro o del dirigente per il reato di omicidio colposo o di lesioni colpose gravi, commesso in violazione di norme, generali o specifiche, in materia di sicurezza e igiene sul lavoro, consegue l'applicazione delle pene accessorie previste dagli articoli 32-bis e 32-ter del codice penale.
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